giovedì 25 marzo 2010

Italia. La crisi di sistema apre un vuoto a sinistra.

La crisi capitalistica in Italia sta producendo la più grave crisi di sistema dagli anni ’90. Quali prospettive?
di Marco Veruggio (ControCorrente)


Secondo il rapporto Eurispes 2010 il tasso di consenso degli italiani nei confronti de Parlamento nel periodo 2004-2010 ha oscillato tra il 24% e il 36%. Alle prossime regionali si temono livelli di astensione ‘francesi’ ed è emblematico che qualche giorno fa il Corriere della Sera, voce del ‘salotto buono’ della borghesia del nord, abbia pubblicato un editoriale di Italiafutura, la fondazione del Presidente della Fiat ed ex leader di Confindustria, Luca di Montezemolo, in cui si afferma che ‘l’astensione è una scelta politica al pari del voto a un partito’. E’ il sintomo di uno scollamento tra la struttura produttiva e sociale e la sovrastruttura politica del paese, che si manifesta sul versante popolare nella rabbia popolare contro la ‘casta’ (la cosiddetta antipolitica) e su quello delle classi dirigenti nel logoramento del rapporto tra Berlusconi e il grande capitale. A cui non corrisponde un riavvicinamento proporzionale di quest’ultimo al centrosinistra.

Anche se il sistema finanziario italiano finora ha sostanzialmente tenuto e il Governo è riuscito a tamponare la crisi occupazionale attraverso la cassa integrazione, la crisi ha continuato a minare le fondamenta del capitalismo italiano. Secondo la CGIL tra ottobre 2008 e dicembre 2010 lo Stato ha erogato un miliardo di ore di cassa integrazione, con un aumento del 311% rispetto al 2008. Un lavoratore in cassa integrazione ordinaria o straordinaria per 25 settimane ha perso 3000-3500 euro. Chi è stato in cassa integrazione a zero ore 7500-8000. Il fatto che l’Italia sia stata inserita nei paesi a rischio default (i cosiddetti PIGS: Portogallo, Italia, Grecia, Spagna) è una delle ragioni per cui nel Governo si discute se allungare o meno la durata massima della cassa integrazione oltre le 52 settimane. Se sì c’è il rischio che l’UE fischi fallo a Tremonti, se no si apre la prospettiva della crisi sociale, col rischio di una deriva ‘greca’.

La crisi del centrodestra

L’esclusione delle liste elettorali regionali del PDL nelle due regioni principali per vizi di forma rivela il livello di crisi del partito di Berlusconi. Le liste vengono depositate in ritardo non per ‘distrazione’, ma perché la definizione dei candidati è incerta fino all’ultimo a causa delle lotte intestine tra le diverse correnti. La lotta per la successione alla leadership del centrodestra è ormai iniziata. In un’intervista a Micromega, rivista vicina al ‘popolo viola’, Fabio Granata, stretto collaboratore di Gianfranco Fini, presidente della Camera e numero due del PDL, dice chiaramente che i finiani potrebbero anche far cadere il Governo se Berlusconi andrà avanti a testa bassa contro la magistratura. D’altra parte il rapporto con Confindustria e le grandi banche sta entrando in crisi per le stesse ragioni che avevano provocato la caduta di Prodi e la crisi del centrosinistra. Berlusconi non può entrare in conflitto aperto col grande capitale. D’altra parte le condizioni di vasti settori del ceto medio stanno precipitando. In Veneto, culla della piccola-media impresa nell’ultimo anno vi sono stati 13 suicidi di imprenditori rovinati dalla crisi. Il capo del Governo non può non tenere conto del fatto che la Lega (ma in parte lo stesso PDL) è il partito dei padroncini del nord, con un consenso in crescita anche nella classe operaia. Così come Fini e i suoi nel centro-sud hanno un serbatoio elettorale nel pubblico impiego e anche in settori di sottoproletariato tenuti legati attraverso il sistema dei sussidi e delle clientele. Dunque il populismo di Berlusconi entra in conflitto con le richieste degli industriali e dei banchieri e - sotto l’occhiuta sorveglianza della BCE - trovare una sintesi è quasi impossibile.

Il centrosinistra

Se Atene piange Sparta non ride. Berlusconi cerca di intervenire sulla vicenda delle liste attraverso un ‘decreto interpretativo’ e ancora una volta appare come colui che usa la legge a proprio vantaggio. Ma d’altro canto il centrosinistra vuole vincere la partita facendo giocare la squadra avversaria senza portiere. In più il via libera del Presidente della Repubblica Napolitano, esponente del Partito Democratico, rappresenta un’evidente contraddizione con la crociata intrapresa dal PD contro il quel decreto. Così come il PDL anche il PD, più che un partito appare un agglomerato di lobbies e comitati elettorali soggetto alle opposte influenze del populismo ‘di sinistra’ dei viola e della ‘richiamo alla responsabilità istituzionale’, incarnata proprio da Napolitano. Una contraddizione che si manifesta non soltanto sul versante delle relazioni con l’establishment, ma anche su quello delle relazioni col mondo del lavoro. Nel PD infatti convivono dirigenti sindacali che hanno sposato la formula della ‘complicità’ tra sindacato e impresa e un pezzo di burocrazia sindacale della CGIL che la crisi spinge a un atteggiamento più combattivo. Ciò rappresenta un’ulteriore elemento di divaricazione del partitone nato dalla fusione di ex comunisti ed ex ‘democristiani di sinistra’.

Il congresso della CGIL

La discussione svoltasi nel maggiore sindacato italiano (quasi sei milioni di iscritti) dimostra che anche la CGIL è ormai un gigante dai piedi d’argilla. Gli effetti della crisi hanno accelerato e amplificato le tensioni e il disorientamento all’interno della burocrazia sindacale, riproducendo fenomeni analoghi a quelli avvenuti prodottisi all’interno nei partiti di riferimento. La tradizionale discussione congressuale per aree programmatiche legate a differenti schieramenti politici lascia dunque spazio a una divisione per categorie. I settori di burocrazia sindacale che rappresentano i lavoratori più colpiti dalla crisi (non quelli che stanno peggio, ma quelli che hanno perso di più) - metalmeccanici, bancari e pubblico impiego - danno vita a un documento alternativo, che - pur con mille contraddizioni e opportunismi - esprime una critica da sinistra della CGIL. L’asse portante di questa alleanza è la FIOM, il sindacato dei metalmeccanici, che in questi anni ha rappresentato un’avanguardia sociale e ha esercitato anche un ruolo di supplenza politica, diventando, di fatto, l’unico vero ‘partito di sinistra’. Questa spaccatura finisce per rompere la vecchia sinistra sindacale, che si schiera con la maggioranza, ma perde pezzi, e gli stessi partiti. Le correnti del PD si danno battaglia dentro la CGIL. Rifondazione Comunista non prende posizione per paura di spaccarsi e vede i propri iscritti combattersi ferocemente. Giampaolo Patta, leader della vecchia sinistra CGIL si autosospende dalla Federazione RC-PDCI, accusando (immeritatamente) RC di non aver difeso la leadership della CGIL e di aver appoggiato sotto banco la FIOM.

Il risultato è che la CGIL si avvia verso la fase finale del congresso con un risultato certificato a maggioranza, ma contestato dalla minoranza per via delle numerose ‘anomalie’ (affluenza al voto spettacolare nelle regioni del sud, affermazioni plebiscitarie della maggioranza dove i rappresentanti del documento alternativo non sono presenti, cambiamento delle regole congressuali nel corso del congresso). E per la prima volta viene messa in discussione la ‘gestione unitaria’, cioè la partecipazione della minoranza agli organismi esecutivi. Il risultato ufficiale attribuisce al documento alternativo il 17% dei voti, ma, calcolando appunto le ‘anomalie’, possiamo attribuire alla minoranza un buon 20-25% dei consensi. Se poi consideriamo il risultato tra i lavoratori attivi il numero è destinato a salire ulteriormente. Bisogna infatti considerare che i pensionati (cioè il 50% degli iscritti alla CGIL) - caso pressoché unico in Europa - vengono considerati iscritti a pieno titolo e partecipano al congresso al pari dei lavoratori attivi, sostenendo tradizionalmente le posizioni della leadership nazionale. Per fare un esempio, nella Camera del Lavoro di Genova, una delle più importanti del nord, il documento alternativo arriva ufficialmente al 30%, ma il suo consenso reale sfiora il 40%. Se poi consideriamo le grandi concentrazioni operaie e impiegatizie la percentuale è destinata a salire ulteriormente. A livello nazionale tra le categorie ‘ribelli’ soltanto nella FIOM il documento alternativo vince (col 73%), mentre tra i bancari e nel pubblico impiego prevale il documento della leadership (ma tra i dipendenti pubblici ottiene poco più del 50%). Il documento alternativo vince nella Camera del Lavoro di Brescia, storica roccaforte operaia, a Reggio Emilia, a Venezia il risultato è contestato, a Bologna la mozione 1 vince solo grazie ai pensionati. Lo stadio di crisi avanzata della burocrazia emerge nella conferenza stampa convocata dalla maggioranza per presentare i risultati ufficiali: ai giornalisti viene consegnata una tabella da cui risulta che i voti validi sono circa 32mila più del numero dei lavoratori che hanno votato… La crisi non risparmia neanche il sindacalismo di base. Infatti il tentativo di avviare un processo di riunificazione tra Cobas, Cub-Rdb e Sdl in realtà sta portando il sindacalismo di base a un’ulteriore processo di scomposizione e ricomposizione in cui, alla fine, aumenta la frammentazione.

La sinistra

I partiti della sinistra rappresentano con dovizia di particolari l’incarnazione di una sconfitta storica del movimento operaio italiano, i suoi vizi e i difetti di fabbricazione, dall’opportunismo al cretinismo parlamentare fino al settarismo ultrasinistro. A vent’anni dalla nascita di RC possiamo dire che un’esperienza fondata sull’eredità del Partito Comunista Italiano (e in misura minore della sinistra extraparlamentare), volge al termine perché, non avendo saputo investire quell’eredità in un’operazione di superamento a sinistra del togliattismo, oggi al suo gruppo dirigente non rimane che spendersi gli ultimi centesimi sperando nella buona sorte. La presunta ‘svolta a sinistra’ dopo la sconfitta dell’Arcobaleno si è fermata alla prima scadenza elettorale, con piena responsabilità di Ferrero e Diliberto, i quali, più che segretari di partito, sembrano amministratori di condominio, legati agli inquilini dal patto: ‘A casa tua fai quello che vuoi, basta che non mi metti in discussione’. I documenti parlano da soli:

Il punto fondamentale è che nel congresso di Venezia abbiamo sbagliato l’analisi dei rapporti di forza esistenti. Abbiamo creduto che la sinistra moderata fosse permeabile alle istanze sociali, mentre essa si è mostrata assai permeabile alle istanze dei poteri forti. Abbiamo pensato che le forze sindacali potessero svolgere un positivo ruolo di pressione, quando invece hanno svolto un ruolo di stabilizzazione del governo in diretta concorrenza con la sinistra. Abbiamo sopravvalutato la nostra capacità di incidere sul quadro politico quando la dislocazione dei poteri reali era tutta contro di noi. In breve: abbiamo fatto parte della maggioranza parlamentare e siamo stati nel governo, ma il Paese lo hanno governato altri (documento congressuale di Ferrero al congresso di Chianciano, 2008).

"In Liguria abbiamo accettato un accordo di governo anche con l’UDC, caso unico in Italia, perché sui programmi i centristi non hanno portato a casa niente, ma è evidente che cominceranno a tirare dopo le elezioni, perché hanno l’idea per cui ridurre il peso dello Stato nell’assistenza e nella sanità, per aprire la porta al privato sociale; per quanto ci riguarda vale il programma e la battaglia in difesa della sanità pubblica è frontale. Se fai vincere il centrosinistra, più è forte la sinistra della coalizione e più si tiene l’indirizzo; stare al governo è un terreno di lotta e non un pranzo di gala” (dichiarazioni di Ferrero sull’accordo elettorale in Liguria tra la sinistra, il PD e l’UDC, partito democristiano, nel centrodestra fino a due anni fa).

La Federazione della Sinistra si conferma un semplice listone elettorale privo di un progetto, se non quello di assicurare una scialuppa di salvataggio ai gruppi dirigenti della sinistra, concludendo alleanze di centrosinistra in 10 regioni sulle 13 in cui si vota. Non ci riuscirà e un ulteriore sconfitta potrebbe farla naufragare definitivamente. Le organizzazioni a sinistra della Federazione, in particolare il Partito Comunista dei Lavoratori e Sinistra Critica (sezione italiana del Segretariato Unificato), che avrebbero tutto da guadagnare da questa situazione, in realtà rischiano di rimanerne travolte. Senza nessuno da criticare infatti rischiano di rimanere prive della loro principale occupazione.

Il popolo viola

Per descrivere questo singolare miscuglio di personaggi potremmo riesumare il Manifesto: ‘Entrano in questa categoria economisti, filantropi, umanitari, miglioratori della sorte delle classi operaie, organizzatori della beneficenza, protettori degli animali, fondatori dei circoli di temperanza e tutta la variopinta genìa dei minuti riformatori’. Ma bisognerebbe aggiungere una categoria, che in Italia ha esercitato un ruolo determinante in tutti gli snodi più delicati della storia recente, come nel passaggio tra prima e seconda repubblica nei primi anni ’90: i magistrati. Non a caso il principale riferimento politico è l’eroe di Tangentopoli, Antonio Di Pietro, oggi leader di IDV (Italia dei Valori), insieme al più giovane Luigi De Magistris, passato alla politica dopo aver svolto numerose indagini sulla corruzione e disturbando sia esponenti del centrodestra che del centrosinistra. Accanto a loro giornalisti come Marco Travaglio (allievo di uno storico giornalista di destra come Indro Montanelli) e Michele Santoro (ex maoista, poi PCI, successivamente eurodeputato del PD). Infine Beppe Grillo, comico genovese, allontanato dalla televisione pubblica negli anni ’80 per i suoi attacchi a Craxi e diventato poi una sorta di fustigatore mediatico dell’establishment.

Il popolo viola è un mix eterogeneo e contraddittorio di legalitarismo e populismo. L’idea che democrazia, ambiente e diritti dei lavoratori si difendano col rispetto delle regole sta facendo breccia non soltanto tra giovani progressisti, intellettuali, bloggers e borghesi benpensanti, ma anche tra i lavoratori. Una penetrazione favorita anche dall’utilizzo di una demagogia antisistema, speculare a quella della Lega. Settori popolari sempre più arrabbiati infatti chiedono alla politica di rappresentare il loro stato d’animo e dunque gli urli di un Di Pietro o di un Grillo incantano ben più che il grigiore brezneviano dei leader del PD e della stessa sinistra. Tuttavia il processo evolutivo del movimento viola sta facendo maturare le contraddizioni al suo interno. Da una parte settori di ceto politico in cerca di sistemazione saltano sul carro di IDV, rendendone ancor più eterogenea la composizione. Dall’altra lo stesso Di Pietro cerca di sbarazzarsi della sua imbarazzante immagine populista e di accreditarsi come futuro interlocutore affidabile per le classi dominanti. Dunque celebra un congresso all’insegna della realpolitik e alle regionali campane appoggia il candidato del PD, Vincenzo De Luca, già condannato in primo grado nell’ambito dello scandalo rifiuti, rinviato a giudizio per associazione a delinquere, concussione, falso e truffa, mentre la moglie è sotto processo per falso e abuso e il figlio indagato per reati fiscali. Così facendo però entra in rotta di collisione con una parte del popolo viola. Dentro il suo partito De Magistris si accredita come rappresentante dell’ala dura e suo competitor, allacciando relazioni con la sinistra. Fuori Grillo fa concorrenza a IDV con le ‘liste a cinque stelle’ e Travaglio, dal suo giornale, grida al tradimento.

La prospettiva

L’Italia dunque presenta un quadro politico, sociale, economico potenzialmente fertile per i marxisti. La stessa esperienza delle assemblee congressuali della CGIL ha fatto emergere un’insoddisfazione di massa verso il sindacato e la sinistra, spesso accompagnata dall’aspettativa di qualcosa che rimescoli le carte e indichi una via d’uscita. Due temi sono ricorrenti. La richiesta di maggiore unità tra le forze della sinistra in parte riproduce la fallimentare impostazione frontista ‘tutti contro Berlusconi’, ma, da un altro punto di vista, rappresenta la giusta reazione al settarismo e alle lotte per la spartizione del potere nei gruppi dirigenti. D’altro canto emerge tra i lavoratori (ma anche tra i giovani e nei movimenti di lotta) la sensazione di essere orfani di una sinistra che non si interessa più di loro. Questa sensazione di ‘abbandono’, che nella burocrazia sindacale si riproduce come nostalgia della ‘sponda politica’ e, appunto, la richiesta di una ricomposizione a sinistra rappresentano - a mio avviso - le chiavi di volta per ricostruire un intervento di classe. Il congresso della CGIL sta portando allo scoperto un settore di burocrazia sindacale che - in parte spontaneamente, in parte sotto la pressione dei lavoratori - riconosce che la crisi chiude l’era della concertazione e impone il ritorno a un sindacato più combattivo, che agisce in primo luogo attraverso l’esercizio della propria forza organizzata nei posti di lavoro. Non mi riferisco a tutta la minoranza congressuale ma alla FIOM e ad altri pezzi della mozione alternativa. Finito il congresso questi settori dovranno ragionare sulla ricostruzione di una sinistra sindacale. Ma ciò porta con sé anche i germi di un’altra discussione, quella su un possibile punto di riferimento politico in grado di dare forza a una nuova sinistra sindacale e alle lotte difensive dei lavoratori. Una ricomposizione delle forze della sinistra anticapitalista e l’avvio di una riflessione di questo tipo, dentro la CGIL ma anche nel sindacalismo di base, potrebbero interagire positivamente e spingere verso uno sbocco politico, analogamente a quanto è avvenuto in Germania e in Brasile, all’epoca della nascita della Wasg e del P-Sol o in Gran Bretagna, con l’esperienza di NO2EU alle scorse europee. Questo è il contesto in cui ControCorrente cercherà di giocare le proprie carte a partire dai giorni immediatamente successivi alle elezioni del 28 marzo.

Nessun commento:

Posta un commento