lunedì 26 marzo 2012

Articolo 18, precarietà, sfruttamento. La parola d’ordine é Resistere !

 
di Stefano Radaelli

È innegabile che le riforme del mercato del lavoro varate in Italia da governi di diverso colore politico negli ultimi vent'anni abbiano fatto piombare migliaia di lavoratori in una condizione di crescente precarietà.
Le iniziative del governo Monti in materia di lavoro rappresentano, in questo senso, il culmine di un processo avviato nel 1993 con il protocollo d'intesa fra governo e parti sociali, proseguito con il "pacchetto Treu" del 1997, il decreto legge n. 368 del 6 settembre 2001 che ha di fatto liberalizzato i contratti a termine, e la legge Biagi del 2003. Tutto questo, nel contesto di ripetuti tentativi di (contro)riforma del sistema pensionistico e di attacchi allo Statuto dei Lavoratori, di politiche economiche improntate alla privatizzazione di importanti rami del settore pubblico, e di un'offensiva "d'avanguardia" condotta da alcuni settori del padronato nei confronti dei propri dipendenti, di cui la "dottrina Marchionne" rappresenta forse il caso più significativo.

Sarebbe tuttavia sbagliato leggere in un simile attacco un fenomeno inedito. Questo processo di progressiva distruzione dei diritti dei lavoratori, a tutto vantaggio del grande capitale industriale e finanziario, non può essere correttamente interpretato se si assumono le garanzie e i diritti conquistati a duro prezzo in decenni di lotta come qualcosa di scontato, di irrevocabile, o di compatibile sempre e in linea di principio con l'assetto sociale ed economico del mondo in cui viviamo, con gli andamenti ciclici del sistema capitalistico.
La condizione per la conquista di quei diritti e il successo di quelle rivendicazioni, è stata infatti la crescita economica resa possibile da una precedente, immane, distruzione delle forze produttive, coincisa con gli eventi sanguinosi della Seconda Guerra Mondiale. In assenza di una simile distruzione, difficilmente il sistema capitalistico sarebbe stato in grado di ripartire; e le uniche condizioni di questa ripartenza furono proprio l'investimento di enormi risorse nella ricostruzione dell'apparato produttivo dei paesi coinvolti nel conflitto, la ristrutturazione delle economie nazionali in un'ottica welfaristica, oltre che, ovviamente, un rinnovato sfruttamento delle risorse naturali ed energetiche concentrate nelle ex colonie delle potenze imperialistiche occidentali.
Estendendo quindi la nostra prospettiva al di là del contesto storico e geografico in cui si sono realizzate la poderosa crescita economica e il miglioramento delle condizioni di vita di milioni di persone nell'occidente industrializzato, ci rendiamo conto di come la precarietà e l'arroganza del capitale nei confronti dei lavoratori rappresentino, in un certo senso, delle condizioni strutturali, connaturate al sistema capitalistico fin dalle sue origini.
Nelle prime fasi dell'industrializzazione, la giornata lavorativa era virtualmente illimitata, il lavoro minorile rappresentava la regola, e non esisteva pressoché alcuna forma di tutela (pensioni, congedo di maternità, servizi pubblici, ammortizzatori sociali, welfare) per quanti si trovavano a costretti a vendere sul mercato la sola forza delle proprie braccia. Queste condizioni sono ancora oggi la norma in vaste aree del pianeta, al punto che si potrebbe dire che le conquiste dei lavoratori in materia di diritti e tutele nei paesi ad elevata e precoce industrializzazione hanno rappresentato poco più che una felice eccezione in un mare di sfruttamento, miseria e disuguaglianza.
L'attacco cui abbiamo assistito negli ultimi vent'anni in Italia, e che continua oggi sotto lo sguardo vigile dei poteri forti del grande capitale internazionale, ha quindi tutta l'aria di una controffensiva. Il lavoro ha perso terreno in seguito a precise sconfitte storiche del movimento operaio, ai tradimenti e all'opportunismo delle forze sindacali e politiche rappresentative degli interessi delle classi lavoratrici, e all'inasprirsi degli attacchi condotti da "padroni del vapore" e speculatori, con la complicità di governi nazionali e istituzioni internazionali, sotto la bandiera dell'aumento della produttività e della difesa dei profitti.
La crescente importanza del settore terziario, determinata anche dallo spostamento delle principali forze produttive in paesi con un più basso costo della manodopera e con meno vincoli allo sfruttamento dei lavoratori, ha certamente rappresentato un fattore importante nella crescente precarizzazione dei rapporti di lavoro, nella diffusione dei contratti atipici, nella trasformazione della disoccupazione in fenomeno endemico. Stessa cosa dicasi per quanto riguarda la finanziarizzazione, ossia l'ingente trasferimento di risorse dalla produzione alla mera speculazione.
Sarebbe tuttavia un errore vedere in fenomeni del genere la "malattia", il problema, e non piuttosto il sintomo di contraddizioni più profonde, che chiamano in causa la sostenibilità sociale del sistema in cui viviamo e lavoriamo. Il rischio, infatti, è quello di pensare che esistano un "buon" capitalismo, incentrato sulla produzione materiale e sulla cosiddetta "economia reale", e un "cattivo" capitalismo, fondato sulla speculazione e sullo strapotere degli istituti finanziari. Produzione e finanza sono in realtà due facce della stessa medaglia, e le vicende storiche dell'economia capitalistica dimostrano come l'alternanza tra fasi in cui prevale l'uno o l'altro di questi aspetti inscindibili sia sempre esistita.
Un altro errore consiste nel vedere nell'ipotetica emergenza di un "nuovo" capitalismo, diffuso e incentrato sulla produzione cognitiva e immateriale, la nota dominante delle vicende di questi ultimi decenni. La popolazione impiegata nell'industria a livello mondiale è aumentata di qualche milione di unità in questo periodo; e in assenza di uno sfruttamento intensivo di esseri umani e risorse naturali, né le infrastrutture che hanno reso possibile il boom dell'informatica, né i profitti stratosferici ottenuti dalle grandi aziende dei servizi sarebbero stati anche solo lontanamente immaginabili.
La lotta alla precarietà non è quindi, una lotta particolare, o peggio ancora "di settore". Non riguarda un esercito di giovani precari contrapposti ad un ipotetico residuo di "vecchi privilegiati"; non riguarda i lavoratori del terziario contrapposti dei lavoratori dell'industria. La precarietà – che, nella sua accezione più generale, significa contratti atipici ma anche crescente rischio di disoccupazione – è, nel suo insieme, un fenomeno trasversale alle generazioni e ai settori produttivi. Chiama in causa i lavoratori come "classe", ossia come blocco sociale cementato da interessi comuni.
La difesa dello Statuto dei Lavoratori e dell'articolo 18 rappresenta, oggi, la difesa di un "ultimo baluardo", caduto il quale anche chi, nella propria vita lavorativa, non ha mai conosciuto la stabilità e i diritti, si troverà catapultato in condizioni ancora peggiori. Allo stesso modo, l'abolizione delle riforme del lavoro degli ultimi vent'anni e la lotta contro la diffusione dei contratti atipici e della precarietà, deve rappresentare il punto di riferimento imprescindibile di ogni partito o realtà sindacale che miri a difendere gli interessi dei lavoratori, a rappresentarne le istanze, a parlare in loro nome.

 




     


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